Un espressionista dionisiaco

L’arte degli anni ottanta e novanta ha tentato di arginare la materializzazione concettuale che ha investito la pittura dei decenni precedenti, ma non è riuscita a rimuovere il peso di un mercato dell’arte tutto spostato sull’estetica “fredda”.
E davanti alle leggi del “mercato” anche i critici migliori si sono mossi e si muovono con prudenza.
E’ altresì indiscutibile che l’onda elettronica ha travolto i cavalletti dei pittori che hanno cercato di contrastarla e che tale onda sia diventata un maremoto globale di immagini fruibili in tempo reale, ventiquattro ore su ventiquattro. Negli anni Dieci del ventunesimo secolo l’asta del pendolo pare si stia movendo nella direzione opposta, verso l’estetica “calda”, verso un’ emozionante riscoperta del quadro.
Francesco Montemurro è uno di quegli artisti che ha resistito con tenacia al destino, apparentemente irreversibile, della morte della pittura e che la sta rianimando con potenti trasfusioni di colore.
Per Montemurro la pittura, liberata dalle pretestuose leggerezze concettuali, riparte dalle radici dell’arte contemporanea e, in particolare, dall’Espressionismo storico.
Il quadro per questo artista è una struttura autonoma, e il protagonista essenziale del linguaggio pittorico è il colore. Montemurro manifesta nei confronti della realtà un atteggiamento complesso che salda con naturale energia la sensazione e la volontà in una sintesi tutta immanente che tende però ad un assoluto, ad un assoluto naturale.
In questo senso la sua arte non recupera soltanto l’Espressionismo, ma anche la Classicità, sul versante dinamico, dionisiaco.
Il suo colore è infatti bruciante, appassionato, esplosivo.
Chi ha la fortuna di entrare nella sua casa-atelier, dopo aver letto un romanzo di Irving Stone: “Brama di vivere”, proverà l’ebbrezza di una via della memoria che lo trasporterà nella casa parigina ricostruita dallo scrittore, la casa di Theo Van Gogh ricolma di quadri di Vincent. Sì, pur nella sospensione fantastica, la pittura di Francesco Montemurro può comunicare un’intensità simile a quella suscitata dalle opere di Van Gogh.
Francesco Montemurro è un artista ricco di straordinario talento e sensibilità poetica.
Il dato saliente delle opere di Francesco, con un’attenzione particolare per i meravigliosi paesaggi, è costituito dalla formidabile ricchezza e varietà di accostamenti cromatici.
Il percorso di Montemurro è in divenire tumultuoso, ma non s’intravedono rischi all’orizzonte: la direzione è sicura, indicata da una poetica che è tutta all’interno della pittura.
Francesco Montemurro “ha un sole nel ventre”.

Maurizio Magli
Critico d’Arte.

IL COLORE VISIONARIO DI MONTEMURRO
La "possessione" espressionista del pittore toscano di origini lucane

Non affabula, nè celebra. La pittura di Francesco Montemurro, piuttosto, intimorisce o disorienta, per i suoi eccessi. E così, forse, si ribella all’indifferenza, alla sufficienza, all’ipocrisia, ormai imperanti in abitudini e comportamenti umani. Se la realtà è una sola, tante sono le lenti con cui osservarla. Infiniti i modi di rappresentarla. O alludervi. Fino alla trasfigurazione. O all’invenzione. Questi passaggi, ancorché inusuali e per alcuni aspetti sorprendenti, sono chiari e tutti sperimentati dal pittore toscano di origini meridionali, di padre lucano e madre calabrese. Il suo è un percorso fecondo, testimoniato da una ricca produzione, frutto di una indomabile brama: la possessione del colore. Già, perché, senza l’energia cromatica, la vena di provocazione e continua sfida di Montemurro ne risulterebbe irrimediabilmente mutilata. Paesaggi e figure del repertorio ricorrente di questo artista attingono a piene mani alla forza del colore che surroga persino la forma e il segno. Colore come corpo ed espressione di ogni soggetto, che l’autore “intuisce” e dichiara, trasferendolo sulla tela. Non “come cosa vista” – precisa lui stesso – ma come “rappresentazione di ciò che avrei voluto vedere o che avrei visto”. La tempesta emotiva irrompe e dilaga in ogni direzione, fagocitando pensieri e visioni, ostaggio di una incontenibile frenesia. Nell’irruenza, si consuma e si condensa un genere che fu dei “fauves” del secolo scorso e che con Montemurro trova rinnovata linfa e nuove motivazioni. Non a caso la critica colloca questo pittore tra gli espressionisti, riconoscendogli una matrice “selvaggia” che con prepotenza, nel tripudio cromatico, tenta di affermare, autonomamente, una sua idea di libertà dalle regole e dalla consuetudine. Ed è proprio la carica di questa consapevolezza, vissuta come urgenza e volontà di asserzione, a governare pennello e tavolozza. Con una gestualità disinvolta, il colore-materia occupa gli spazi, definisce le luci, vincola i contrasti. Quasi mai cerca le assonanze o si placa nelle gradualità. Sembra invece perennemente instabile, vocato all’accensione e ad un’azione “di disturbo” che crea agitazione, vibrazione, anche quando alberi, strade, colline, litorali paiono indagati in una apparente quiete. Se l’artefice di questo “gioco di esaltazione” ne risulti appagato è difficile dire. Dietro una parvenza di compiacimento nell’osare, vi è spesso il segno del dolore, la spudoratezza della denuncia, l’impeto dell’istintività. Il linguaggio prescelto, d’altronde, non tollera esitazioni. Le pennellate, dense e decise, sono perentorie, fino al punto che la stessa natura ritratta da oggetto diviene soggetto, con una propria vitalità tesa a smentire qualsivoglia funzione accessoria, di sfondo o di contorno. Montemurro esercita a pieno la sua prerogativa di “costringere” lo spettatore delle sue opere a interrogarsi. Lo scuote con l’aggressività del colore. Lo affronta con la deliberata spudoratezza di chi vuole scoprire con chi ha a che fare. Una pretesa di chiarezza che non regge i conformismi e che alle titubanze preferisce il coraggio dell’azione. Senza obblighi di coerenza o di razionalità. L’imprevedibilità di Montemurro è ancora più manifesta nei volti e nei tanti ritratti di donne, vecchi e bambini. Qui il rapporto con i sentimenti è trattato senza filtri e falso rispetto. Le figure, le espressioni degli occhi, la durezza dei lineamenti parlano di solitudini e drammi interiori, di fobìe e verità profonde, messe a nudo, smascherate, esibite. Quasi mai grazia e amore abitano l’animo umano. E anche quando uccelli, gatti, o cani sono oggetto del dipinto le tensioni del loro guardare non si attenuano, ma ripetono il gioco espressivo che mette a disagio lo spettatore. Se l’artista si definisce con quello che crea e dipinge, si intuisce a quali conseguenze estreme Montemurro ha portato la sua analisi. Una ricerca a viso aperto, che ha saputo rinunciare al percorso professionale e alle certezze del diritto, per incamminarsi lungo i sentieri più accidentati e immateriali dell’arte. Il profilo della sua indagine, in ogni sua mostra, si sottopone a nuovi giudizi e altrettante verifiche, sia con il pubblico che con la critica, ottenendo ottimi riscontri e ampi riconoscimenti.

Negli ultimi anni, tra le personali più importanti, sono da citare quelle a Montecarlo, a S. Paul de Vence, al Castel dell’Ovo di Napoli, al Palagio di Parte Guelfa di Firenze, alla Sala Reale della Stazione Centrale di Milano, al Museo diocesano d’arte sacra, Chiesa di S. Apollonia di Venezia, al Castello Malaspina Cybo di Massa. Un percorso significativo tra monumenti storici di lontana memoria e accoglienza garantita da grandi amministrazioni pubbliche. Itinerari articolati tra la costa Azzurra e la Versilia, con tappe a Marina di Pietrasanta, a Montignoso, a Lastra a Signa e che per l’estate prossima, dal 9 giugno al 31 luglio, lo vedono impegnato al Castello Doria di Porto Venere (La Spezia) con una rinnovata produzione di oltre 90 quadri.

Francesco Montemurro, nato nel 1957 a Viareggio, in attività tra Massa e la riviera, si considera, comunque, un figlio del Meridione. Suo padre Cosimo, di Matera, si trasferì a trent’anni in Toscana con la famiglia, per motivi professionali. Era avvocato. Ma una grave malattia lo portò alla morte prematuramente. Fu allora che Francesco, per necessità, ma con determinazione, completò gli studi in legge e diventò procuratore, per mandare avanti lo studio paterno. Quella scelta l’ha mantenuta fino a qualche anno fa, quando la passione per la pittura, rivelatasi sin dall’infanzia, si è finalmente imposta, costringendolo a dismettere la toga definitivamente. Era stato il padre a regalargli un libricino sulla pittura ad olio quando aveva sei anni. Poi il miraggio per il colore non lo aveva più abbandonato. A 11 anni aveva venduto il suo primo quadro. Francesco dipingeva quando poteva, ma leggeva molto, si documentava, osservava, si informava. Una manìa che lo ha portato a conoscere i grandi maestri della storia dell’arte e a confrontare le loro teorie sul colore. Matisse, Van Gogh, Gauguin, Boeklin, De Chirico, Lautrec, Nolde, Munch, Viani, ma soprattutto Carl Jung tracciano i binari su cui Montemurro si muoverà come una locomotiva a tutto vapore. Senza più freni e compromessi, la sperimentazione procede come una sfida. La passione conosce i guizzi dell’esaltazione. L’ostinazione apre le strade di una ribalta puntualmente certificata da successo e convergenti interventi critici. Una loro raccolta si può consultare sul sito www.francescomontemurro.com

Tra i progetti per il prossimo futuro ci potrebbe essere una mostra a Matera, la città dei Sassi, patrimonio mondiale dell’Unesco, come Porto Venere. Qui Montemurro avrebbe più di una motivazione, non solo anagrafica e affettiva, per proporsi con il suo acceso repertorio coloristico. La pietra e il tufo, egli spera, non possono non accogliere gli appelli alla vitalità che le sue tele potrebbero portare come “ritorno” ai “giardini di pietra”, metafora degli antichi rioni sottratti alla morte e alla vergogna e ora riabitati e riportati alla vita. Un altro sogno ambizioso vorrebbe l’artista in Estremo Oriente, in Corea, a Core del Sol, come ambasciatore dei colori lucani. Se il sogno diventasse sfida, allora, le probabilità di avverarsi non sarebbero poche.

Piero Ragone
Giornalista – Critico d’Arte.

In occasione della personale Museo d'Arte Sacra, Chiesa Sant'Appolinia - Venezia :: 12 maggio - 30 maggio 2004 ::
MONTEMURRO: IL PITTORE DELL'INVISIBILE

Uno dei quadri più inquietanti di Francesco Montemurro si intitola “Cinque figure nere”. Le cinque figure nere si distinguono, sia pure a malapena; ma l’occhio insiste nel “decifrare” una gran macchia scura che si alza sulla destra. Probabilmente è un albero; ma in esso si riassume quasi un grumo di pensieri. Quell’albero è la sesta figura: la più angosciante di tutte. Siamo vicini a quella forma di simbolismo espressivo che caratterizzò a suo tempo Edvard Munch e che tanto continua ad attirarci. Montemurro dipinge sempre per traslati, per allusioni, per trasposizioni d’immagine. E per questo che noi, ogni volta che vediamo un suo quadro, cerchiamo quel che di nascosto vi è in esso. Guardiamo ad esempio “Mangrovie”. Non appaiono figure; ma noi continuiamo a cercarle. Esse si celano (non c’è dubbio) dietro e dentro la massa fosca e indistinta degli alberi. E una larva, qualcosa che non si distingue, ma che cresce, si dilata, lievita verso l’infinito.
Un grande mistico spagnolo di fine Cinquecento, Juan de la Cruz, amava ripetere, nelle sue prediche dai pulpiti dei duomi di Salamanca e di Toledo, una frase che doveva rimanere impressa nella mente dei fedeli: “Non siamo qui per vedere, ma per non vedere”. Intendeva, quel sant’uomo, invitare ad un’operazione ardua: quella di percepire tutto ciò che appunto il velame dei sensi normalmente cela. Vedere l’invisibile; cioè avvicinarsi, per quanto possibile, all’immagine di Dio. In fondo Montemurro non fa che applicare, a cinque secoli di distanza, il significato recondito di quella frase di Juan de la Cruz. La pittura serve a farci vedere quel che c’è “oltre”, al di là del limite segnato dai nostri sensi. Soltanto la musica ci appare come un parallelo; ma anch’essa ha bisogno dei ricordi, cioè dei “segni” di una visione lontana, illanguidita dal tempo. Che può significare quell’alberello rinsecchito di Montemurro, cui l’artista ha apposto il titolo, anch’esso enigmatico, di “Baluardo”? Oppure quell’ispido intersecarsi di segni scuri da cui fuoriescono gli occhi lampeggianti di un gatto?
Montemurro non ci parla mai “direttamente”: vuole che siamo noi a carpire il significato profondo dell’immagine. Ecco la sua insistenza sulle forme laterali, che paiono muoversi verso i bordi del quadro. “L’eterno traditore”, con il suo sottile bieco stringersi degli occhi, riassume tutta l’interna psicologia del personaggio: e non a caso il centro è dato da una massa rossa, che fa da contrasto al color livido del volto. Anche quando lo sguardo del personaggio ritrattato ti fissa dal centro del dipinto, ecco che i pensieri fuggono obliquamente; e dalle pupille dilatate emerge il senso di un atteggiamento dello spirito. Che poi si tratti di figure umane o di paesaggi, fa poca importanza. E la pittura che “parla” di per sé. Una strada che punta verso l’orizzonte infinito rappresenta l’arduo percorso di chi cerca la verità “oltre i sensi”.
Eppure la pittura di Montemurro è dura, secca, arida, come spietata. La sua matrice è espressionista. Dietro di essa si scorgono le matrici storiche da cui discende, magari inconsapevolmente: da Munch a Nolde, da Soutine a Lorenzo Viani (per dare qualche indicazione meno vaga). Non c’è ricerca del prezioso o, peggio, del grazioso. Anzi: tutto quel che suona come artificioso è rigettato. Il colore ti colpisce come una freccia che si conficca sul corpo di un eterno San Sebastiano: il segno vibra continuamente, facendosi tramite di un pensiero pauroso. “Il buio e il becco” sono le indicazioni, per qualche verso superflue, di un atteggiamento che dalla rappresentazione (la testa grifagna di un uccellaccio) tocca direttamente i gangli della nostra psiche.
È terribile e, insieme, vero: rappresentazione ed interpretazione, cosa e pensiero. La tecnica stessa dell’artista non fa che seguire il dettato dello spirito: tant’è che la pennellata ora si agita convulsamente, ora si stempera in passaggi tonali; ora ama i più folgoranti cangiantismi, ora si butta nella più feroce violenza timbrica.
Che significa tutto ciò? Indubbiamente la prevalenza dell’istinto allo stato brado rispetto alle elucubrazioni estetizzanti della mente storica. Ma significa anche la continua ricerca di qualcosa che indichi, come se detto, la verità dell’immagine rispetto alle tante menzogne che la pittura oggi in genere ci propone. Mi vengono in mente le parole di un celebre pittore, Max Ernst, di fronte ad una mia perplessa richiesta di spiegazioni. Eravamo il 21 febbraio del 1985 a Venezia, all’ingresso della grande mostra che Palazzo Grassi dedicò quell’anno al pittore tedesco. Di fronte a noi c’era un’enorme scultura (chiamiamola così) fatta di due stanghe di carro agricolo che si protendevano fin quasi a toccare il soffitto. “Che senso ha tutto questo?”, chiesi a Ernst. E lui, con la sua aria ironica,: “Non vede? E un microbo visto attraverso il microscopio”. E di fronte al mio crescente disorientamento: “Caro amico, le idee vengono sempre dormendo”. Era chiaro che intendeva dire (in fondo come il citato Juan de la Cruz) che occorre sempre uscire dai binari della mera sensibilità. La verità vien fuori al di là di ciò che si vede. Il “significato” diventa “valore”.
Quel che accade solitamente a chi osserva il famoso quadro del Guercino, “Et in Arcardia ego”, si ripete continuamente. Anch’io, anche tutti noi, abbiamo vissuto nell’Arcadia felice. Ma basta l’apparizione, sia pure marginale, del teschio posato sul frammento di un muro, per farci venire in mente il vero significato della felicità:
quell’uscire dall’illusoria felicità dell’Arcadia per capire i valori che legano indissolubilmente la vita alla morte.
Da questo versante si può capire che anche una pittura apparentemente “concreta” come questa di Montemurro possa diventare il tramite di una densa meditazione filosofica. Basta, appunto, entrare nel vivo dell’immagine: capire il pensiero che si cela dentro la forma. In “Achab”, ritratto di un cane, sono gli occhi il fulcro dell’immagine: quegli occhi che rivelano frustrazioni e amarezze. La bestia si trasforma in uomo; e viceversa. Ancora una volta lo sguardo, come tutta la testa, è rivolto all’esterno. Al di là risiede la verità dei sentimenti. “Achab” sta guardando l’”invisibile”; e magari arriva dove tanti cervelli fini di uomini non arriverebbero.

Paolo Rizzi
Critico d’Arte.

In occasione della personale Sala Reale - Stazione Centrale - Milano :: 5 aprile - 23 aprile 2004 ::
IL MAGO, IL MATTO e LA PAPESSA

Realtà, realtà astratta, realtà concettuale, tutte espressioni che, applicate alla pittura, definiscono in ogni caso un “altrove”: il regno dell’immaginazione.
In questo luogo favoloso e misterioso il pensiero umano ha creato le immagini, le parole, la filosofia, le scienze, ecc.. Nella incomprimibile libertà dei suoi spazi si esprime tutta la potenza creativa del Mago. Il regno dell’immaginazione è un punto di partenza (da lì veniamo) e un punto di arrivo (lì dobbiamo andare) nella circolarità delle vite.
Il Matto prende il suo fardello e si mette in viaggio. Non avrebbe quasi senso il viaggio senza il fardello (forse non sarebbe nemmeno possibile).
C’è la Papessa, depositaria del pensiero esoterico, la guida nel viaggio, Beatrice per Dante, l’eterno femminino di Goethe.
I tre arcani maggiori dei tarocchi che stanno nel titolo di questa mostra a Milano sono le icone del viaggio iniziatico di Francesco Montemurro nella Pittura, che parte della immaginazione per ritornarvi, di volta in volta, sempre più carico di emozioni, sempre più consapevole di sé e del proprio potere creativo. Francesco ha compreso da subito come la figura dipinta fosse lo straordinario strumento per creare un “altrove”: “Io non dipingo ciò che vedo, né ciò che ho visto. Mi piace infatti rappresentare ciò che avrei voluto vedere, o ciò che avrei visto”.
La straordinaria varietà e potenza coloristica delle sue opere attengono ad un processo alchemico nel quale gli esiti sono in parte controllati e in parte, non secondaria, derivati dal combinarsi dei colori e delle loro sorprendenti interazioni. Ha scritto Francesco Montemurro: “I bambini tutti, così come gli adulti, hanno avuto la possibilità di innamorarsi tanto dei fuochi d ‘artificio, quanto delle straordinarie figure che il caleidoscopio suggerisce. Evidentemente, noi uomini abbiamo la possibilità di stupirci di fronte a rappresentazioni coloristiche che, apparentemente, si palesano senza costrutto”.
L’opera di Montemurro non è confinabile in un movimento, in una classificazione rigida, mi vengono in mente i libri di Carlos Castaneda, è un percorso sciamanico dove il gesto dell’artista scuote livelli sotterranei e produce vibrazioni spirituali forti.
Si possono probabilmente amare o no le opere di Montemurro: è assolutamente impossibile restare indifferenti. È una percezione del mondo sincretica: tutte le esperienze, di ogni luogo e di ogni tempo, vi trovano cittadinanza. E ciò vale sia per i contenuti sia per le tecniche. La tecnica di Montemurro è allo stesso tempo classica, moderna, gestuale, informale. E le contraddizioni restano contraddizioni: senza pietà. Francesco Montemurro è un pittore contemporaneo.
Ha scritto Antonella Serafini nella pregevole presentazione della mostra di Firenze: “La nostra epoca, soprattutto nell‘ultimo quarto di secolo, ci ha abituati ad espressioni artistiche profondamente cerebrali, tuttavia non ha eluso la lezione tragica di Van Gogh né quella determinata di Gauguin; gli artisti come Montemurro in una qualche misura ci costringono nuovamente a questo confronto, a questo non potere ignorare che siamo circondati da esseri umani e che ognuno di loro vaga con questa infinita virtuale tavolozza più o meno racchiusa nel suo strumentario quotidiano. Quasi a rinsaldare il dialogo con questi ed altri autori, a collocarsi come uno dei prosecutori delle loro indagini il Nostro talvolta cita sembianze o toni di colori tipici di taluni artisti, e così i cipressi di Van Gogh, la figura che fu prima di Arnold Boeklin e poi di Giorgio De Chirico, i rossi di Toulouse Lautrec, i viola di Emil Nolde e i bianchi di Edward Munch, alcuni volti fulminati di Lorenzo Viani. Il ritorno a certe immagini e la loro trasfigurazione sotto la luce di altri colori ce le rende presenti sotto nuove intuizioni.”
Dopo le Prigioni di Castel dell’Ovo a Napoli e il Palagio di Parte Guelfa a Firenze, alle Sale Regie della Stazione di Milano prosegue il confronto e il dialogo tra le opere di Francesco Montemurro e spazi unici carichi di storie incredibili , luoghi in cui ha vissuto , soggiornato ed agito la più varia umanità. Luoghi in cui il pensiero umano ha concretizzato la sua immaginazione in opere architettoniche ed artistiche straordinarie ed imprevedibili.
Le opere di Montemurro interagiscono in modo singolare con tali luoghi, si trovano a loro agio avvolte in una dimensione atemporale, che riunisce in una grande famiglia (di riconoscibili tra di loro) gli “artefici” dell’immaginario.
E il pubblico diventa sempre un protagonista di questa empatia.
L’artista è medium tra noi e tutti i possibili “altrove”. Tutte le angosce e le passioni , che appartengono all’inconscio collettivo, stanno nelle opere d’arte come nel mondo dei sogni. Spesso più reali di ciò che ai più sembra la realtà.
L’incontro con i tarocchi, la sfida intellettuale che le immagini della tradizione lanciano all’artista contemporaneo, sono stati momenti di ulteriore presa di coscienza da parte di Francesco Montemurro. La lezione di Carl Gustav Jung è stata recepita e metabolizzata al massimo grado: l’artista diventa strumento dell’inconscio collettivo. Oracolo pervaso da Dioniso.
E l’incontro con l’iconologia dei tarocchi rende più facile per noi valutare sotto una luce particolare tutta l’opera di Francesco Montemurro. Rende più facile scoprire i segreti. Le intuizioni innovative presenti nelle immagini degli arcani maggiori, che non sfuggiranno a chi ha una qualche dimestichezza coi mazzi tradizionali dei tarocchi, consentono una chiave di lettura particolare che può essere estesa a tutte le altre opere. In un equilibrio costante tra tradizione e contemporaneità (anche trasgressiva) l’artista si concede come “strumento” di comunicazione. Racconta certamente di sé, ma, in qualche modo, nelle sue opere, riconosciamo atmosfere familiari, immagini che ci appartengono, le nostre paure e le nostre certezze (poche). Le nostre storie: il passato, il presente e il futuro.

Marco Gianfranceschi
Critico d’Arte.

In occasione della personale di
Villa Caruso Bellosguardo - 2003
LA STRUGGENTE POTENZA DI MONTEMURRO

La pittura è uno dei grandi serbatoi del pensiero umano, in cui si sedimentano le emozioni, i sentimenti e le storie. Le storie degli altri, le storie di tutti gli altri, che sono, allorché il pittore le incontra, anche le sue. Quelli di Francesco Montemurro sono racconti che, nel loro divenire, risultano sempre un’esperienza personale. L’artista assume su di sé il “vissuto” collettivo e lo rende condivisibile per tutti.
Grande importanza hanno così i soggetti sempre rappresentati con tratti immediati, quasi frettolosamente composti per una totale visione dell’insieme, da cui scaturiscono “estetiche emozioni”. Sono storie di persone, di paesaggi, di vicende umane tratte dalla cronaca. Tutte, però, acquisite dall’anima e il quadro finisce per essere la rappresentazione di ciò che il mondo è per l’artista.
È per questo che lui lo conosce meglio di ogni altro e lo può raccontare senza pudore e senza paura.
I colori delle opere di Montemurro sono coraggiose grida delle passioni che vagano nell’anima, sono contrasti al limite della tollerabilità, se questa, come tale, fosse ritenuta come un riferimento importante. La “intollerabilità” del pathos e la fonte della creatività per questo pittore, che con grande vulnerabilità e costanza, si mette, in continuazione, in gioco. Perché Francesco dipinge soprattutto per la necessità di compiere un colloquio sempre più profondo con se stesso e con la realtà che acquisisce e ricrea, e ci si accorge della perenne, dolorosa e allo stesso tempo dolce ed intima lotta fra la razionalità e la magia dell’inspiegabile, che governano il suo cuore.
La pennellata, a volte pastosa, a volte leggerissima, denota la sua voglia di ricerca pittorica, arricchita dalle èsperienze di studio e di confronto con i grandi. Forte in certe opere il richiamo al Fauvismo francese, emblema di un cromatismo selvaggio ed espressionista. Eppure come non restare senza fiato sospeso davanti all’impressionismo “intimista” delle opere in cui le atmosfere si materializzano per segni leggeri ed evocativi. Penso all’uomo seduto, al nero dei pantaloni, in contrasto volutamente accentuato al mondo appena accennato degli azzurri, dei blu e del bianco o agli ombrelli-meduse in un mare di giallo. Le opere restano nella memoria per l’inscindibile sinergia dei soggetti e dei colori e per la loro autonoma esistenza. Sono figlie dell’autore, ma vanno da sole incontro al mondo.
Non è facile, oggi, avere l’opportunità, avvicinando un artista, di percepire con tale forza la passione delle idee e del pensiero creativo.

Marco Gianfranceschi
Critico d’Arte.

FRANCESCO MONTEMURRO:
MAGIA DEL COLORE A CASTEL DELL'OVO

E’ una caratteristica del nostro tempo quella di recuperare spazi espositivi in luoghi destinati nel tempo ad altre utilizzazioni. Si crea così un particolarissimo rapporto tra opere d’arte esposte al pubblico e spazi carichi di storia.
La pittura diventa un mezzo di feconda interazione fra la storicita’ dei luoghi e il sentimento degli artisti. Nulla nasce per caso (o forse tutto), ed in questa mostra di Francesco Montemurro nelle antiche prigioni di Castel dell’Ovo il connubio alchemico fra l’artista e lo spazio espositivo e’ piu’ che mai intrigante.
Cogliere il dialogo che si instaura tra le opere di Montemurro e il Castel dell’Ovo, un gioco magico a cui il visitatore partecipa, senza potersi sottrarre. Naturalmente per compiere questa operazione bisogna seguire esotericamente i mondi paralleli della immaginazione che furono così intensamente percorsi e visitati da due degli “abitanti” più illustri del castello: Giovanna d’Angiò e Tommaso Campanella, la prima che vi abitò come regina il secondo che vi abitò come prigioniero. Entrambi legati inscindibilmente al luogo e alla leggenda dell’uovo magico, che è sempre stata così fortemente custodita e difesa dal popolo napoletano.
Come la sirena Partenope s’impiglia negli scogli dell’isola di Megaride , anche Francesco Montemurro sosta sopra questi luoghi , intessendo un fitto colloquio con le mura delle prigioni, un luogo di presenze surreali in cui il suo linguaggio visivo e grafico è capace di trasmettere anche le piu’ intime mutazioni degli animi e delle coscienze.
La pittura di Montemurro, con la sua peculiare cromaticità, riesce a instaurare un’atmosfera carica di aspettative , dove le figure dei suoi quadri più recenti si ritagliano uno spazio quasi tridimensionale , timbricamente dissonanti con la cangiante veridicita’ degli sfondi . La pittura si delinea come il luogo di un viaggio avventuroso e liberatorio che non trova mai l’occasione del suo compimento finale.
Il tratto grafico, quasi famelico, che con rapidita’ percorre le tele, scorpora le cose, i tratti dei visi , li rende così sottili e quasi immateriali icone del sentimento e degli stati d’animo.
Si può percepire in questa esigenza stilistica , il desiderio di “caricare” le opere di energie e di presenze, assorbite per via d’immaginazione nel luogo nel quale viene allestita la mostra. E allora le prigioni parlano a Montemurro di storie violente e misteriose, promettendo complicita’, ammaliandolo in un vortice di luci ed ombre , di grida, pensieri e speranze persi nei tempi.
La “carica” che nasce da questo connubio è senz’altro da attribuirsi all’efficacia estetica delle opere di Montemurro , così cariche di colore, di contraddizioni, di contrasti tonali, cariche di qualita’ espressive e di infinite alchimie.
Le prigioni del Castel dell’Ovo, peraltro sono impregnate di “carica” ovvero sono: cariche di storia, di dolore, di silenzi , cariche di disperate speranze che trasudano ancora da quei muri.
Francesco Montemurro e Castel dell’Ovo: questo binomio ha permesso il realizzarsi di questo evento , dando la possibilità ad ognuno di noi di poter godere con gli occhi e con il cuore delle mille voci e dei mille spiriti che vivono e si materializzano in questi luoghi , ed nei quadri e nelle esplosioni cromatiche delle tele di Montemurro che divengono così medium, o porte esoteriche dell’immaginazione nella incredibile bellezza dell’ autunno napoletano.

Marco Gianfranceschi
Critico d’Arte.

MONTEMURRO: UN NUOVO UMANESIMO

Da un percorso, anche tortuoso e tormentato, nasce la pittura di Franscesco Montemurro. Che è tutto fuorché facile, tutto fuorché immediata. E’ una pittura che ho definito disperante. Solo scrutando questi colori si riscopre la dimensione tragica del divenire umano.
Certi rossi che concludono paesaggi all’apparenza idilliaci, sono paesaggi del disordine, dello scontento, dell’acre solitudine dell’uomo nuovo rivivono in queste tele senza titolo. Cambiano (apparentemente) i soggetti ma il percorso cromatico ritorna alla stessa matrice: la ricerca, il superamento dei grandi.
Le sue opere sono lo sbocco di questa poetica. Un nuovo Umanesimo. E’ la ricerca di Francesco Montemurro. Anche nei volti dei bambini.
Un Vespignani senza più speranze o motivazioni ideologiche che non siano il ritorno all’uomo. Una pittura militante, ma al tempo stesso agnostica.
Il messaggio, grazie a Dio, stavolta sta nel medium.

Corrado Benzio
Giornalista Storico dell’Arte.

I SOGNI

Francesco Montemurro, ovvero la pittura che diventa spettacolo coloristico messo in scena nel teatro della forma e dell’insofferenza. Una ricerca anche estetica, di bellezza e di colori in un periodo, il nostro, dove imperano gli epigoni di un nichilismo pittorico oltremodo semplice e banalizzante.
La creatività di Francesco Montemurro riporta finalmente i colori e le forme sula tela.
La pittura si riappropria così del suo essere soprattutto un’ arte visiva.
Ecco, dopo aver visto i quadri di Francesco Montemurro, noi siamo convinti che il suo sia un vero stile, una vera arte dove forme colori hanno una loro significanza e una loro forza espressiva. D’altra parte, e per sua stessa ammissione, i pittori dell’espressionismo tedesco (ed in particolar modo August Macke) hanno esercitato un forte richiamo sulla pittura di Montemurro, molto sensibile alla forza del colore.
Un colore che, badate bene, non é semlice pennellata, bensì studio, rispondenza d’anima, insofferenza, emozione.
Dovendo irretire in poche parole la poetica pittorica di MOntemurro si può dire che, in lui, l’arte “comincia dove’era finita”.
Dallo studio dei cliassici, dall’ abc delle forme, studiando per ore e ore nei musei i quadri e le opere di artisti, anche minori, magari dimenticati dalla massa.
Anche in questo lavorio si nascondono il segreto e la malia dei quadri di Montemurro: volti di donna che tolgono il fiato epr la loro carica disperante, paesaggi che investono lo spettatore sino quasi ad imprigionarlo all’interno della cornice.In questo la poetica di Francesco Montemurro sembra aver fatto tesoro della grandezza di Nietzsche: “ci si stanca di ciò che non é prezzo di una lotta”.
La sua pittura, intrisa di colori scagliati contro la tela, è il manifesto di un pittore di grandissimo talento, irruento e selvaggio, dotato di una tecnica polivalente, con i piedi fermamente poggiati sulle nuvole. Nuvole di sogni che, attraverso i suoi dipinti, prendono forma mettendo lo spettatore davanti alla vacuità dell’esistenza di oggi. Periferica, anonima, priva di emozioni. Cullata nella rispettività del quotidiano.
Come guidato da una forza misteriosa e da una voracità espressiva, Montemurro indica al pubblico la strada della libertà, della vita: “Non fate mai niente che non avete sognato”.
Nelle pieghe dei colori, nei paesaggi che scorrono veloci, indimenticabili, il pittore toscano apre un mondo. Senza compiacenza. Con il linguaggio della sua pennellata dirompente rappresenta non ciò che vede ma ciò che sogna.
Per questo guardare un quadro di Francesco Montemurro significa intraprendere un viaggio. Un viaggio che ci libera dalla notte contemporanea per trasportarci in un mondo nuovo, fatto di luce e di colori. Di vita. Senza imitare nessuno, con l’originalità della sua forza espressiva e tumultuosa. Liberatoria. Un nuovo linguaggio pittorico. Che supera l’ambito del buon ritrattista o del bravo paesaggista. Per portarci sulle nuvole dell’arte. Nello spazio infinito della creatività.
Una libertà, quella che si prende Francesco Montemurro, troppo spesso dimenticata. Perché essere artisti è una fatica dura. Non c’è giorno e non c’è notte. Ma soltanto pittura. Sogni. Un infinito fatto di solitudini. Perché un pittore, oggi, nella prigione della vita contemporanea, è solo. Con il suo talento, con la ricerca di ciò che gli manca. Come un quadro di Francesco Montemurro. Un artista che racconta i sogni e ci colora la vita. Un uomo che ha fatto della sua arte, un viaggio. Un viaggio nei meandri più nascosti dell’uomo. Sino al termine della notte.

Massimilano Lenzi
Poeta Giornalista.

LA STRUGGENTE POTENZA DI MONTEMURRO

La Pittura è uno dei grandi serbatoi del pensiero umano, in cui si sedimentano le emozioni, i sentimenti e le storie. Le storie degli atri, di tutti gli altri, che sono, allorché il pittore le incontra, anche le sue. Quelli di Francesco Montemurro sono racconti che, nel loro divenire, risultano sempre un’esperienza personale. L’artista assume su di sé il “vissuto” collettivo e lo rende condivisibile per tutti. Grande importanza hanno così i soggetti sempre rappresentati con tratti immediati, quasi frettolosamente composti per una totale visione dell’insieme, da cui scaturiscono “estetiche emozioni”. Sono storie di persone, di paesaggi, di vicende umane tratte dalla cronaca. Tutte, però, acquisite dall’anima, e il quadro finisce per essere la rappresentazione di ciò che il mondo è per l’artista. È per questo che lui lo conosce meglio di ogni altro e lo può raccontare senza pudore e senza paura. I colori delle opere di Montemurro sono coraggiose grida delle passioni che vagano nell’anima, con contrasti al limite della tollerabilità, se questa, come tale, fosse ritenuta come un riferimento importante. La “intollerabilità” del pathos è la fonte della creatività per questo pittore, che con grande vulnerabilità e costanza, si mette, in continuazione, in gioco. Perché Francesco dipinge soprattutto per la necessità di compiere un colloquio sempre più profondo con se stesso e con la realtà che acquisisce e ricrea, e ci si accorge della perenne, dolorosa e allo stesso tempo dolce ed intima lotta fra la razionalità e la magia dell’inspiegabile, che governano il suo cuore. La pennellata, a volte pastosa, a volte leggerissima, denota la sua voglia di ricerca pittorica, arricchita dalle esperienze di studio e di confronto con i grandi. Forte in certe opere il richiamo al Fauvismo francese, emblema di un cromatismo selvaggio ed espressionista. Eppure come non restare senza fiato sospeso davanti all’”impressionismo intimista” delle opere in cui le atmosfere si materializzano per segni leggeri ed evocativi. Penso all’uomo seduto, al nero dei pantaloni, in contrasto volutamente accentuato al mondo appena accennato degli azzurri, dei blu e del bianco o agli ombrelli-meduse in un mare di giallo. Le opere restano nella memoria per l’inscindibile sinergia dei soggetti e dei colori e per la loro autonoma esistenza. Sono figlie dell’autore, ma vanno da sole incontro al mondo. Non è facile, oggi, avere l’opportunità, avvicinando un artista, di percepire con tale forza la passione delle idee e del pensiero creativo.

Marco Gianfranceschi
Critico d’Arte.

Le luminose trascendenze di Francesco Montemurro

I primi tempi, guardando un tuo quadro, provavo uno strano turbamento. Un bosco con la strada in salita, gli azzurri d’acqua profonda, le grandi piante con fulgori di luce colorata, mi suggerivano un cammino da fare, un andare non so dove, un mistero.

Poi rivedendolo e rivedendolo, sono a poco a poco entrato nel mondo incantato che tu hai costruito, e ho capito che tutti i tuoi quadri lo rappresentano, lo illustrano, ne costituiscono la porta d’accesso.

E che non è un mondo arcano di segreti e d’angoscia, ma un mondo mistico, superiore a quello nostro in cui viviamo, infinitamente più intenso, dove i pensieri diventano sentimenti che esplodono come soli, dove le strade conducono sempre ad un paese amico, dove la luce rischiara la tua anima, dove il colore risana le ferite e annulla i dolori, e ti conduce attraverso forti emozioni verso una pace profonda, una serenità sovrumana.
Un mondo a cui tu sei arrivato con un percorso riservato a pochi eletti, e al quale consenti a noi di entrare e di guardare per un istante come se potessimo osservare in modo fuggevole il paradiso dell’Eden.

E’ per questo che io ho avuto quel giorno da te, nel tuo studio, la folgorazione che tutto ciò che dipingi è trasfigurante e curativo, che i tuoi non sono colori ma potenze, luci di salvezza che dissolvono la miseria e i dolori. Che non sono colori, ma luminose trascendenze, strade di guarigione e, per tutti, promesse di vita ad un tempo intensa, autentica e serena.

Francesco Alberoni
Sociologo.

FRANCESCO MONTEMURRO:
l’orchestra del colore

La pittura di Francesco Montemurro, così ricca di colore, così piena di vivace, rapinosa immediatezza, si presta a due distinte, ma non contrapposte, forme di fruizione.
Come accade agli artisti in grado di esprimersi con un’affabulazione spigliata, Montemurro si fa capire ed amare anche da chi all’ arte si avvicina con una certa ritrosia. Sono assenti, in lui, i cascami concettuali che per due fastidiosi decenni hanno gravato sull’arte contemporanea, e ancora non si sono del tutto dissolti. Non si colgono tracce, nel suo lavoro, delle astuzie dialettiche che fanno da impalcatura verbale e argomentativa a installazioni furbesche.
Non per questo si dovrà parlare di un’artista fuori dal tempo. Al contrario, Montemurro è perfettamente inserito, non solo e non tanto nel suo tempo, ma nel tempo della storia dell’arte.
E qui entra in azione una seconda forma di fruizione. Montemurro riesce a farsi comprendere, come succede ai grandi scrittori, ma non è un’ artista privo di cultura, Ricordo certi suoi quadri, come ad esempio “Aspettando l’eclissi”, nei quali rivive la poesia di Chagall, con impasti timbrici eccellenti e una sensibilità cromatica consolidata dagli anni. Echi di Van Gogh si affacciano in altre tele, quando il pittore dipinge animali o paesaggi e il colore assorbe e trasmette una poesia intensa nella sua sincerità.

Nelle marine, Montemurro prolunga fino ai nostri giorni la memoria grata di Dufy, come del resto gli capita di fare con gli artisti “fauves”. Poteva sembrare tautologico in passato, oggi lo è decisamente di meno, per cui tanto vale ricordarlo: la pittura è colore.
Montemurro questa lezione (semplice solo in apparenza!) non l’ ha dimenticata. Il suo colore, così pastoso e sensuale, rivela un altro aspetto della sua realtà umana: rivela quella componente meridionale che è parte del suo carattere.
Il colore rimanda una gioia di vivere che contrasta con molti approdi funerei dell’ arte contemporanea e “parla” di un gusto, di un piacere che non devono andare perduti. Anche l’ Espressionismo,specie nella sua declinazione iniziale della Brucke, è presente nel retaggio culturale del pittore.

Tutto è vivo nella sua pittura.

Tutto è palpitante ed autentico nella schioppettante sinfonia dei suoi quadri.

Eppure, e non certo per un agevole gioco dialettico, c’è qualcosa, nella sua pittura, che ha spinto numerosi critici a parlare di lui come di un artista a suo modo difficile e addirittura imprendibile.
Sì, è vero: Montemurro è imprendibile alla stregua delle rivelazioni che si affacciano nella mente sollecitata dai ricordi, da letture, incontri o altro ancora.
Egli ha rimesso in circolo un’arte grande che sembra umile, gentile e graffiante come si addice alla poesia.

Stefano de Rosa
Critico d’Arte.

LA VIA DEL COLORE

Subito, sin dalle prime tele, Francesco Montemurro ha scelto la via del colore, evidentemente più corrispondente al suo modo di intendere l’arte, la vita e la realtà. Montemurro infatti è un entusiasta, è un impulsivo anche se dotato di ottime capacità razionali e relazionali; ama i forti contrasti e non dissimula il suo disinteresse verso ciò che invece è troppo opaco, logico, privo di vitalità. Osare è il suo credo nel quotidiano come nel fare artistico. Il colore è la struttura della sua pittura, è attraverso esso che compone i suoi soggetti, sentendosi libero di sprigionarne valenze inappropriate sotto il profilo della mimesi, ma consone al suo stato di eccitazione fantastica. In lui non c’è ombra di narrazione, tutto si condensa in un flash abbagliante, in una ricerca di assoluto in cui tende a rarefarsi il legame fra il motivo e il significato convenzionalmente riconoscibile.
I suoi volti sono i ricordi di emozioni tradotte in un colore predominante.
I suoi animali dai manti irreali sono riassunti in occhi veritieri e fondi.
I suoi paesaggi sono finestre spalancate su domande cui è difficile dare risposta. Tutto è acceso ed è sospeso, come in attesa di qualcosa che accadrà e di cui non sappiamo l’esito. Sono immagini piene di sensualità e non prive di inquietudine, che mi hanno ricordato i cieli meridionali, azzurri e immobili di Vitaliano Brancati, troppo azzurri per non essere forieri di tempeste.
Per certo, tutti i soggetti denotano stati intensi d’interiorità che rielaborano il vissuto e lo pongono in rapporto alla modalità di agire sul reale attraverso lo strumento più antico del pittore: il pennello, in ciò indifferente, come ha scritto Montarsolo, alle sirene di ogni tentazione del concettuale e della performance.
Il colore è assunto da Montemurro come struttura portante entro cui procedere, misurandosi, con l’onda delle poetiche espressioniste che hanno attraversato il Novecento appena trascorso; non per emulazione quanto, appunto, per elezione linguistica correlata alle vibrazioni forti della sua percezione.
Nessuna sintesi cromatica additiva o sottrattiva, solo fantasia vertiginosa frutto di un pensiero fugace e imprevedibile, che si nutre di sincerità di esperienze umane e rifugge misurati o calcolati equilibri.
L’ultimo sguardo, al di là dell’amicizia che mi lega al pittore e che, pertanto, mi rende testimone parziale, è, mi sia concesso,una forzatura di lettura storica.
Il suo lavoro, osservato sotto il profilo delle concatenazioni evolutive del linguaggio visivo si riallaccia, in modo coerente, alla linea dell’espressionismo mediterraneo che nasce, e non a caso, proprio nella fascia nord-tirrenica a cerniera fra Toscana e Liguria, in quella Versilia che si afferma alla consapevolezza della letteratura e dell’arte col sorgere del turismo e dei cenacoli culturali che prendono forma in alcuni luoghi baciati dalla bellezza del paesaggio fra Alpi e mare. E penso al chiassoso cenacolo pucciniano tra lago e acque salate, a quello dannunziano fra dune e golfi liguri, alle propaggini marine degli ambienti pittorici livornesi e pisani, con i loro particolarissimi interessi per la luce e per i contrasti esasperati dei toni e del chiaroscuro. E’ quella , a cavallo del primo Novecento, la linea che muove dai nostrani pittori d’impressioni ottiche e atmosferiche, sempre in transito fra Genova, Firenze, Livorno, Pisa e le Riviere (mi riferisco ai Nomellini, Kienerk, Lomi, Discovolo, Lloyd e ai gruppi pisano-livornesi e liguri di Levante) e approda ai lidi solitari (ma non troppo) del visionario Merello che tingeva di spettacolarità cromatica, assolutamente irrealistica, i suoi paesaggi amatissimi e silenti. A lui rispondeva, sul lido viareggino un altro fantastico visionario, Lorenzo Viani, che tra i primi deborderà dalle grazie moderniste per abbracciare l’urlo del colore simbolico. E ancora sulla linea del colorismo mediterraneo incontreremo tra Versilia ,Val di Magra e La Spezia vari interpreti, ciascuno fornito di un bagaglio culturale variegato ma poi confrontatosi in questi luoghi, in questo humus ambientale: Moses Levy, i giovani Ercole S. Aprigliano, Giuseppe Caselli, Giovanni Governato e Maria Questa.
Che sia questa una chiave di lettura, tramite i luoghi e il loro inevitabile dna, anche per il nostro viareggino Francesco? Che sia questa l’origine del suo risalire alle fonti dell’espressionismo cromatico saltando a pié pari le ricerche dell’ultimo cinquantennio?

Marzia Ratti
Direttrice dei Musei Civici della Spezia – Critico d’Arte.

FRANCESCO MONTEMURRO
tra filosofia, intellettualismo e romanticismo

Tre cose mi hanno sempre colpito nelle tele di Francesco Montemurro: il cromatismo pittorico, i titoli delle opere e la sua capacità di percepire i disagi esistenziali.
E’ facile intuire il primo. Sono colori, quelli, i primari, appartenenti alla tavolozza dell’artista, che suscitano attrazione e allegria per la loro vivacità. Nell’immaginario collettivo rimandano al movimento dei Fauves ma, se il Fauvisme è la matrice scatenante della sua scelta coloristica, di certo i contenuti che nel suddetto movimento riportano all’istinto e alla felicità, in Montemurro sono di ascendenza intellettualistica e romantica, per cui si riallacciano a tutt’altro aspetto espressionistico. E’ nell’espressionismo tedesco che dobbiamo ricercare l’anello di congiunzione con il suo modo di operare, individuabile nella necessità dell’artista di trasmettere al fruitore la propria interiorità e la propria verità.
Le tele di Montemurro sono cariche di empatia che investono e coinvolgono totalmente l’osservatore per cui l’arte non è più solo rappresentazione del dato oggettivo reale ma diventa espressione di un sentimento tratto dalla realtà stessa. La pittura è concepita come struttura intellettuale.
E’ nelle letture dei filosofi tedeschi che Montemurro trova risposte esaurienti ai quesiti che egli si pone nell’affrontare la sua ricerca contenutistica: da Schelling per le teorie naturalistiche, da Schopenhauer per la dualità tra realtà che si manifesta nelle forme del soggetto e realtà come volontà di una consapevolezza di sé, da Nietzsche per il figurativismo, per l’attenzione ai valori dell’emozione e dell’istinto, per i contrapposti concetti di “dionisiaco e “apollineo” e per le teorie sul nichilismo.
L’arte di Montemurro trova quindi le sue radici nei colori dei Fauves, nei contenuti dell’espressionismo tedesco ma anche nel romanticismo inglese del primo ‘800 per la melanconia, la solitudine, quel senso d’infinito che regna in certe tele, per l’abbandono alle forze istintuali, per l’insofferenza alle convenzioni, per la determinatezza nel seguire le proprie ispirazioni.
In questo contesto cognitivo ed emozionale egli afferma la sua individualità artistica manifestando la propria fervida immaginazione coniugata alla viscerale necessità di imprimere nella tela il proprio stato interiore.
I titoli delle opere, per la loro caratteristica idiomatica-metaforica dimostrano di essere stati scelti accuratamente: sono esemplificativi ed integrativi all’opera stessa. Mai banali o scontati, denunciano l’intellettualità dell’artista, la sua cultura, il suo sentimento, la sua ironia. Così un tramonto diventa “Il cambio della guardia”, una passeggiata romantica “I cercatori di lune”, un angolo del parco “All’ombra dell’albero principe”, la melanconia di Arlecchina sarà “Luci ed ombre”, il notturno in campagna “E le pecore belarono aggruppate”.
I caldi colori primari prevalgono vivaci, allegri, esuberanti, materici ma non troppo, poiché la pennellata è colore e tratto disegnato al tempo stesso. Solo in alcune opere il deposito materico si rende indispensabile divenendo parte espressiva del soggetto stesso come in “Profilo di vecchia” dove la stratificazione cromatica sottolinea il trascorrere del tempo nel volto della donna, portando il pensiero a riflettere sul suo vissuto; o ne’ “L’eterno traditore” dove la sedimentazione materica acquisisce significati spazio-temporali che, status quo, sarà impossibile cambiare.
Nel figurativo i soggetti femminili mostrano caratteri sessuali evidenziati a sottolinearne la sensualità. L’eroticità dei personaggi non si manifestata nell’aspetto esteriore, ma proviene dall’interiorità, dal loro vissuto. E’un’eroticità che si “sente”, si avverte nell’atmosfera che circonda il soggetto. E’ un’eroticità che non paga la freschezza dell’amore, ma è vissuta come decadimento, talvolta devastazione come in “Nudo di donna”, il cui volto è disfatto, i rossi capelli scendono sulle spalle, scompigliati e sudaticci, la mano posata sulla gamba indica un’eroticità sempre propositiva. Non v’è sorriso sul quel viso, lo sguardo triste e assente si perde lontano. Il corpo è presente, ma il suo mondo interiore è altrove, langue in sogni ormai svaniti.
Anche il tema dell’infanzia mostra un mondo di fanciulli maschili e femminili dai volti tristi, mai un sorriso. Nei grandi occhi ritroviamo tutta la manifestazione del loro sentire interiore: l’occhio riflette il disagio e il sentimento interiore.
I bambini di Montemurro vivono l’infanzia in modo distaccato dal mondo degli adulti. Consapevolmente vi appartengono, ma nel contempo lo temono. Essi si presentano come personaggi distaccati dalla realtà che, chiusi nel loro mondo, si affacciano a quello degli adulti con timore e tristezza. Perché non sorridono? Perché il loro sguardo si perde nel vuoto? Perché il tripudio di colori non riesce a mascherare la malinconia dei soggetti? Sembrano dominati dallo sgomento del vuoto e del nulla, permeati dalla disillusione nichilistica. Neppure il cappottino vermiglio in “Bambino con cappotto rosso” o l’abito da pagliaccio in “Il tenero Ernesto” riescono ad alleviare, per un attimo, questo “peso interiore”, questo disagio psicologico che domina di melanconia i loro sguardi.
In “Bambina con ombrello” campiture di verdi, di rossi, e di gialli vivacizzano la scena. Piove, ma i colori sono brillanti. E’ notte inoltrata, la luna è alta nel cielo, le finestre delle case sono illuminate. Perché la bambina dagli occhi tristi lascia la casa calda e asciutta per inoltrarsi sola nel buio della notte?
Forse, a tutte queste domande risponde il dipinto dal titolo “Nessuna risposta” dove una madre, impassibile, ascolta, senza prendere in considerazione i problemi del figlio.
Gli elementi ricorrenti nei dipinti che trattano l’ambiente naturalistico sono essenzialmente tre: la luna, la linea dell’orizzonte, il riflettersi della natura sulla parte inferiore della composizione in un perfetto organicismo immanentistico di schellinghiana memoria, per cui, ogni parte ha senso solo in relazione al tutto, dove il “tutto” è interno alla natura stessa, mezzo e fine, attività spontanea e creatrice. L’equilibrio compositivo viene ricercato attraverso riferimenti cromatici in un rapporto organico razionale che denota uno studio approfondito dell’impianto strutturale. Le sue realizzazioni sono pervase da un’ idealismo di derivazione trascendentale che rielabora il dato naturale secondo le leggi della propria interpretazione cognitiva.
Esemplificativo è “Notte di vento” dove l’impianto strutturale è statico, la casa in primo piano è solida e compatta, la luna piena (è sempre plenilunio nelle opere di Montemurro) è elemento chiaro, fisso, certo, non una nube l’attraversa mettendo in forse la sua presenza dominante. Non vi sono elementi oggettivi che lascino pensare ad una notte tempestosa, a parte i due cipressi con l’apice della chioma piegata. Eppure, in questo quieto notturno le pennellate lacerano la tela, graffi multicolori ne penetrano la trama, i colori s’intersecano, si fondono, urlano violenze pittoriche, pare che aprino squarci di cielo, agitino campi di messi, sollevino sterpaglie volteggiandole nell’aria. E’ il vento che si è mostrato. La notte non è più quieta. L’ “urlo violento dei colori” è divenuto l “urlo della violenza del vento”. Nella notte ora se ne sente il frastuono. E’ l’urlo primitivo della natura che si scatena. Ancora una volta Montemurro è riuscito nel suo intento: far sentire ciò che non appare!

Enrica Frediani
Critico d’Arte.

In occasione della personale di Firenze
Palagio di Parte Guelfa - "Passioni"
26 settembre - 5 ottobre 2003 ::
Il titolo Passioni ben si addice ad un cromatismo selvaggio e nel contempo struggente, quale possiamo immediatamente noi tutti ravvisare nel gesto pittorico di Francesco Montemurro. L’utilizzo delle prestigiose sale offerte dal Palagio di Parte Guelfa consente all’intera cittadinanza di fruire di un evento artistico peculiare e suggestivo, all’insegna della valorizzazione degli spazi monumentali della città. Siamo dunque lieti di ospitare la personale di questo artista cha già altre Amministrazioni hanno avuto il piacere di accogliere.

Eugenio Giani
Assessore alla Valorizzazione delle Tradizioni Fiorentine.
In occasione della personale di Firenze
Palagio di Parte Guelfa - "Passioni"
26 settembre - 5 ottobre 2003
FRANCESCO MONTEMURRO
di Antonella Serafini

Francesco Montemurro è un espressionista, né potrebbe essere altrimenti per un artista che ha scelto la pittura come medium per la ricerca e l’espressione di sé. Il colore assunto come elemento strutturale della visione, la sua funzione plastico costruttiva dei quadri collocano Montemurro fra gli eredi e i prosecutori di quella corrente artistica che ad un secolo dal suo fragoroso ingresso nella storia dell’arte ha tutt’altro che esaurito le sue sollecitazioni creative. L’esperienza – sia pure artisticamente ancor giovane – del Nostro è una delle dimostrazioni di come fra le correnti che mutarono profondamente la concezione stessa dell’arte agli inizi del XX secolo, l’onda dell’Espressionismo si mostri a tutt’oggi inarrestabile; il suo linguaggio e la sua sintassi non hanno più abbandonato l’arte passando dalla astrazione alla figurazione senza iati fino ai nostri giorni.
Dalle parole dei protagonisti di quegli anni fertili e tumultuosi che scoprirono il colore si evince la consapevolezza che essi avevano di proiettare le loro creazioni e le loro convinzioni ben oltre l’orizzonte della loro generazione. La prova che non ebbero torto è che non solo le loro opere ma le loro affermazioni sono oggi più che mai attuali, con un’unica differenza: mentre allora esse servivano a giustificare le loro azioni, a dare base teorica alle loro scelte, a dimostrare che non erano quelle belve con cui la parola francese fauve li ha consegnati alla storia, oggi quelle parole ci emozionano ancora per la semplicità delle verità che proclamano.
Io non so distinguere fra il sentimento che ho della vita e il modo in cui lo traduco, scrive Henri Matisse nel 1908 nelle Notes d’un peintre, La scelta dei miei colori non si basa su qualche teoria scientifica, si basa sull’osservazione, sul sentimento, sull’esperienze della mia sensibilità. Prima di lui Vincent Van Gogh aveva sostenuto che la costruzione materiale dell’immagine attraverso il colore è il ritmo profondo dell’esistenza tradotto in gesto. E Paul Gauguin aveva rivendicato per l’opera d’arte l’esistenza di una realtà non sottoposta in alcun modo a quella fisica naturale, con leggi interne altrettanto valide. Ma soprattutto ci giungono ancora oggi come pietre miliari le parole di Wassily Kandisky che scriveva ne Lo spirituale dell’arte: Il colore è un mezzo per influenzare direttamente l’anima. Il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima. E’ chiaro che l’armonia dei colori è fondata solo su un principio: l’efficace contatto con l’anima. Questo fondamento si può definire principio della necessità interiore.
E’ proprio l’esplicita convinzione di Kandinsky riguardo alle infinite possibilità dei colori e al loro rivelarsi costantemente attraverso la pratica, che dà agio e rinnova la giustificazione storica di scelte artistiche come quella di Montemurro.
Francesco cinque anni or sono, affermato avvocato di quarant’anni, lascia le aule dei tribunali per dedicarsi alla pittura e, in un’epoca attraversata da un eclettismo artistico inimmaginabile solo venti anni prima, da una infinita gamma di media da sperimentare in ogni direzione, si rivolge senza incertezze alla tela e al pennello e al colore. Come mai? La risposta è nel suo temperamento e in quel che Henri Bergson definì Élan vital. Per Montemurro la pittura è un tentativo di riappropriazione di sé e di riunificazione di corpo e psiche; egli avverte l’atto creativo nel suo ritmo incessante come possibilità di un tuffo dentro il tutto, lo compie come un gesto d’istinto di chi si fida più dell’ebbrezza che dell’intelligenza, per questo attinge ad un linguaggio – quello del colore – inesauribile sebbene ampiamente fatto oggetto di codificazioni.
Dal 1808, quando Johann Wolfgang Goethe scrivendo la Teoria dei colori tracciò la prima ipotesi di una psicologia della percezione, si sono moltiplicati i tentativi di definire più o meno scientificamente se è l’uomo che ha dato un senso ai colori oppure se sono i colori che hanno imposto agli uomini i loro valori emotivi. Alcuni fatti sono inequivocabili per ogni epoca e latitudine – il cielo è azzurro, il buio è nero, il sangue è rosso, il sole è giallo; nessun colore sfugge alla sua ombra, né alla sua luce, la luce è infinita come e quanto l’oscurità. Un passo ulteriore è invece la convinzione che i blu, i marroni, i viola, gli arancioni siano tanti quanti sono gli esseri animati che hanno abitato la terra. Esseri e colori infiniti destinati a vivere sentimenti essenziali con sfumature infinite: odio, amore, gioia, disperazione, ambizione, passione, abnegazione, assoluto.
Montemurro con la sua pittura manifesta la volontà di appropriarsi del dominio di tutti i colori e di ogni loro gradazione, ricerca ogni possibile accostamento tonale violando qualunque regola, o forse più facilmente ignorandola. Provoca nel quadro gli incontri più irragionevoli per questa ragione: come ogni colore e ogni tono di esso può deliberatamente, occasionalmente, provocatoriamente stare accanto ad un altro, analogamente il sentimento della vita non deve avere limite alcuno.
La vita si palesa davanti per intero, dal fango all’infinito, con il libero arbitrio. Montemurro sembra dipingere il libero arbitrio che noi cogliamo in una pioggia come in un vaso di fiori, in un casolare abbandonato nella montagna; l’artista pare di fronte ad una rivelata, assillante, ineluttabile libertà che talvolta gli scotta in mano come brace. In certi suoi dipinti si avverte l’atmosfera di Meriggio di Gabriele D’Annunzio, vi è la stesso senso panico, una estesa e diffusa necessità di controllo (conoscenza) e di possesso.
La nostra epoca, soprattutto nell’ultimo quarto di secolo, ci ha abituati ad espressioni artistiche profondamente cerebrali, tuttavia non ha eluso la lezione tragica di Van Gogh né quella determinata di Gauguin; gli artisti come Montemurro in una qualche misura ci costringono nuovamente a questo confronto, a questo non potere ignorare che siamo circondati da esseri umani e che ognuno di loro vaga con questa infinita virtuale tavolozza più o meno racchiusa nel suo strumentario quotidiano.
Quasi a rinsaldare il dialogo con questi ed altri autori, a collocarsi come uno dei prosecutori delle loro indagini il Nostro talvolta cita sembianze o toni di colori tipici di taluni artisti, e così i cipressi di Van Gogh, la figura che fu prima di Arnold Boeklin e poi di Giorgio De Chirico, i rossi di Toulouse Lautrec, i viola di Emil Nolde e i bianchi di Edward Munch, alcuni volti fulminati di Lorenzo Viani. Il ritorno a certe immagini e la loro trasfigurazione sotto la luce di altri colori ce le rende presenti sotto nuove intuizioni.
Il paesaggio è il luogo – sia esso urbano o naturale – dove con più libertà e talento si concretizzano il lirismo e le emozioni, la necessità creativa, lo slancio vitale, il senso panico di Montemurro. Il colore del paesaggio è l’elemento della sua ispirazione, il paesaggio nel colore è il suo linguaggio, la sua dialettica migliore. Ci troviamo di fronte a quadri dove chiome cupe si scontrano con cieli costernati dalla loro violenza cromatica, con strade inondate dal colore degli alberi che le costeggiano, mari sgomentati dai barbagli che le nubi sono costrette a sostenere quando il sole tramonta calmo e lento, vasi dove i fiori racchiudono scalpitando i colori della natura, ma anche segni acidi e aspri, neri, contraffatti da un’improvvisa irritazione.
Non si prescinde dalla solitudine perché ognuno nasce inguainato nella sua pelle, ma essa può evolvere in caleidoscopio o in un aspro silenzio. Il poeta aspetta la pioggia perché poi vedrà un arcobaleno recita un proverbio Kerguelen, Montemurro ha della pioggia la percezione del bagnato che vivifica il colore ma è capace anche di dipingere un mare di colori gelidi, drastiche e ferme linee orizzontali e, subito dopo, a questa tragedia dell’esistere fanno riscontro dei pini gialli e rosa su fondo blu.
Ad una natura soggiogata, schiava volontaria del colore, che in esso vive e brilla, Montemurro contrappone volti assenti che talvolta sembrano quasi annichiliti nei colori, ma i ritratti, o meglio la rappresentazione degli esseri umani, si presenta più problematica. Mentre raramente i paesaggi del Nostro risentono di una mancanza del totale controllo dell’artista, il suo temperamento fauve dilaga libero e senza soggezioni concedendosi anche capricci estetici, nelle figure Montemurro alterna realizzazioni pienamente riuscite ad altre che invece ci appaiono come il risultato di un empasse, alcuni soggetti sembrano sfuggire al suo dominio, alla sua prepotenza. Taluni ritratti possono risultare quindi pittoricamente meno apprezzabili ma rimangono tuttavia importanti nella storia del suo percorso creativo in quanto certificatori di un conflitto, quello fra il pittore e il suo soggetto, quasi che quest’ultimo – come nelle antiche mitologie – con uno scudo respinga lo sguardo dell’artista impedendogli la totale appropriazione. E’ altresì vero che è proprio nei ritratti che si fa più presente la fonte – per così dire – tedesca dell’espressionismo di Montemurro, il senso drammatico più evidente.
L’Élan vital di cui abbiamo parlato coniuga la vitalità dionisiaca al senso angoscioso della morte; non siamo certo noi i primi a dire che la vita nasce dalla morte, molti artisti vitali, voraci, violenti, hanno dovuto tendere l’arco della vita fino ad incontrarla, quanto più è forte lo slancio vitale tanto più questa corda cerca l’altro limite estremo: Francesco l’ha trovato nella linea retta della bocca di Donna Margherita, nel bianco, nel viola e nel giallo.
Montemurro con la sua pittura affronta il potere e l’impotenza umana, la fibrillazione della luce e l’annullamento del buio. Libero come uno zingaro antico, vitale e disperato dilaga sulla tela con il suo colore. Il colore che non si nega mai alle perenni domande, che non ti lascia solo, che soffre, che vibra, esplode con te; il colore come atto continuo di potenza e di dominio, capace di sedare il rammarico e sconfiggere un rimorso. Un colore sano che ignora la viltà, per questo in grado di dichiarare a viso aperto anche la sconfitta e la disperazione.
Il colore è per Francesco un colpo in canna. La sua firma ingombrante è un proclama che dichiara questo sono io.

Antonella Serafini.

LA PITTURA VISIONARIA

Ho capito che l’unica felicità a questo mondo sta nell’osservare, spiare, sorvegliare, esaminare se stessi e gli altri, nel non essere che un grande occhio fisso, un po’ vitreo, leggermente iniettato di sangue. La felicità è questa, lo giuro”.
Così, il grande romanziere Vladimir Nabokov nel suo ‘romanzetto’, “L’Occhio”, afferma il piacere esclusivo dell’occhio, al quale non dobbiamo sottrarci. E l’occhio introspettivo è quello che Francesco Montemurro getta nella sua vita e nella nostra vita. Le sue tele vogliono restare sopra e al di là della vita così usualmente organizzata in chambres proustiane.
Gli interni dipinti da Montemurro hanno le note di certe canzoni di Paolo Conte; gli interni cercano l’evasione nella pittura ed è la pittura che incendia la carta da parati, immobilizza il soggiorno, i divani, gli orologi, il tempo dell’interno.
Francesco Montemurro nelle sue scelte predilige l’uso del pennello per redigere, come un’argonauta seduto, i sogni visionari di chi sprofonda in un sofà dalla pesante tappezzeria.

Chiara Guidi
Critico d’Arte.

MONTEMURRO:
UN ARTISTA DIFFICILE E IMPRENDIBILE

Quando ho iniziato ad osservare i dipinti di Francesco Montemurro, quando sono entrato nel suo Studio, quando ho visitato le sue Mostre e mi sono soffermato a guardare quei quadri, grandi o piccoli che fossero, straordinariamente traboccanti di colore, da Storico dell’Arte ho cominciato, come capita sovente, a ragionare in termini di correnti, di modelli, di referenti artistici antichi e contemporanei che potessero inquadrare quel fare pittorico in uno schema usuale, comprensibile, rigorosamente misurato dall’ordine della critica e della Storia.
Ho pensato a una vena impressionista, a quei tocchi fauves, quella libertà di espressione coloristica che tralasciava, volutamente o meno, lo studio realistico della figura umana senza renderla astratta.
Ho pensato a una certa vena surreale, fino alle rabbiose grida di rivolta della “nuova pittura” a tutto quel “non dipingere” che nella contemporaneità “distrugge” il quadro tradizionale.
Ho sentito, quasi toccato, lo spessore dei colori stesi con una forza che trascende il pennello, e non ho potuto fare a meno di riflettere che certo così un artista non avrebbe potuto trasporre sopra la tela la sua vena creativa, senza il back ground di quei grandi pop-artisti che gettarono infine lo strumento, per esporre la mano alla tela e al colore.
Poi mi sono fermato e mi sono ricordato che conosco Francesco da tutta la vita e che, guardando le sue opere, potevo seguire un’altra strada.
La strada della sua vita.
La strada di un amico che ho conosciuto bene, credo, e che sento parlare attraverso quei quadri forse più di quanto non riesca egli stesso a fare con le parole o i gesti banali di un incontro faccia a faccia.Ho ricordato Francesco, i suoi studi, i suoi interessi, il suo amore per la vita umana aldilà dei libri di storia, dei Musei, di un qualsiasi riferimento culturale, finanche volutamente dimenticato.
Quei dipinti, siano essi ritratti, paesaggi, figure di animali, vedute all’orizzonte, coppie di personaggi indissolubilmente legati in un incontro generato dalla tela ma che li terrà fissamente lontani per l’eternità, sono il segno di una ricerca, chissà forse di libertà, o di tutti quei sogni un po’ animaleschi, del tutto umani, a cui tutti noi osservatori aspiriamo, fin senza saperlo.
Francesco è un artista istintivo, nel contempo dotato di un’incredibile tecnica; ma é inutile inquadrarlo, come certe sue figure dipinte, nella critica fissità di uno schema storico artistico.
Nelle sue opere mette in gioco se stesso.
C’è una durezza, talvolta, una semplicità disarmante, un calore umano che sgorga da quei quadri e li rende forti; dei colpi violenti per lo sguardo e per la mente come una passione, come uno schiaffo, come un bacio.
E di più, forse aldilà dei soggetti, qualche volta appena abbozzati, un altro segno di questa foga creativa che non riesce a fermarsi, inchiodandosi dolorosamente nel non finito, è il colore, sempre il colore, che offre l’ultima interpretazione o l’estremo desiderio di trasmettere una sensazione, il vero pathos di questa pittura.
Colori caldi, colori acidi, colori primari, colori in contrasto, colori “sbagliati”, sempre stesi con pennellate larghe, spesse, dense, come se in quello spessore dovesse rinchiudersi, o da quello spessore dovesse uscir fuori, la forza dei suoi desideri.
Ma se c’è una grandezza, oltre a quella del Francesco Uomo che cerca nuovi strumenti per esprimere se stesso, se c’è anche una grandezza di Francesco Montemurro Pittore, è proprio quella di dar vita in quei quadri a sentimenti, passioni, rabbie, paure, amori, che non sono i suoi solo.
Sono quelli di tutti, sono quelli degli uomini che si interrogano, sono quelli degli uomini che pensano.
E allora, io, Storico dell’Arte, qualche volta freddo lettore del fare creativo, non posso dire che cosa la Storia riserverà a Francesco Montemurro e alla sua pittura.
Ma io Uomo che Osserva i Suoi Quadri, posso dire che Francesco c’è riuscito.
Posso scrivere che quando guardo quei quadri penso e talvolta ricordo e tocco e sono toccato dal brivido della sua passione, delle nostre passioni.

Corrado Lattanzi
Critico d’Arte.